Saran belli gli occhi neri

saran belli gli occhi blu

ma le gambe
 ma le gambe
 a me piacciono di più.

Saran belli gli occhi azzurri
 e il nasino un po' all'insù

ma le gambe
 ma le gambe
 sono belle ancor di più!1

1 “Ma le gambe” parole e musica di Alfredo Bracchi – Giovanni D’Anzi, Trio Lescano, 1938

 

Che all’espressione “le gambe del vino” sia da attribuire un’accezione figurata è ovvio. Impossibile pensare ad un litro o poco meno di liquido colorato - ma comunque alcolico - che si aggiri per la città, o sulla nostra tavola, in equilibrio su due estremità simili alle nostre.
Eppure si dice, eppure si usa. E se si dice e si usa va da sé che sia capito ed accettato.

Ma perché? Ricorrere ad una metafora visiva serve solo se è immediata, più veloce e più chiara delle parole… Andiamo Francesca: ce la puoi fare.
Mi concentro. Buffo: arrivano alcuni suoni. La mia mente si predispone al bianco e nero. Un grammofono balbetta, gracchia e gratta melodie d’antan. Inizia ad arrivare un accenno, un barlume d’immagine dai contorni sfocati. Lo schermo sembra vibrare. Come un popcorn deflagrato nella padella, scoppia luminosa un’immagine, mentre la successiva sgomita per imporsi.
Sono gambe. Tante, tantissime gambe. Ma no, non possono essere gambe. Eppure…
Essù: sembrano solo “zeppetti”, gentili legnetti ricurvi a disegnare e campire lo spazio.
Dove li ho già visti?
Ora ci sono! Ziegfeld Follies.

La migliore definizione possibile per le estremità che vedo zampettare è che sono gambe astratte: nella sua genialità Ziegfeld Follies le usa come matite o come compassi per isolare, disegnare e ricomporre lo spazio sullo schermo. Conservano la loro grazia e la loro carnalità, ma sono funzionali a rappresentare dei segmenti, dipingono gentili curve che leggiadre disegnano lo spazio.

Torno al bicchiere. Ho imparato ormai bene a far ruotare il vino al suo interno, inclinandolo leggermente per apprezzarne l’unghia. Ora riporto il calice verticale e… le vedo: dal femore alla caviglia - che di nuovo si tuffa nel vino – ecco le gambe.
Sono le gentili striature curvilinee sulla superficie interna del bicchiere che anticipano all’occhio ciò che vorrò fra poco soppesare e saggiare con la lingua: la ricchezza d’estratti della squisita bevanda. Ho sicché testé scoperto ben due parole del vino che significano la stessa cosa e allora – per amor di chiarezza – mi piace pensare che, se si ammirano ferme, nella loro forma, si chiamano gambe. Ma se si ammirano liquide mobili e colanti son le care vecchie lacrime.
Ma dopo i miei occhi e la sua unghia, dopo le sue lacrime o le sue gambe che dir si vogliano - e tuttavia prima della mia bocca…. il mio naso impone dei puntini di sospensione. Una sosta.

Colpita dalla quantità di aggettivi possessivi del pensiero che precede, divago. Mi coglie una vertigine e una parentela. In nessun altro caso la lingua italiana, o piuttosto l’uso che ne facciamo, è più ricco di possesso di quanto non lo sia nei confronti del cibo e della cucina: “i nostri gamberi”, “la nostra padella”, “i nostri topinambur”, “le vostre frittatine”, e poi ancora “il nostro forno”, “le nostre lasagnette”, per non parlare dell’orrido “il loro fumetto”, “la loro salsina”… 
Orror rei nullius, o fame atavica, tanto atavica che ci obbliga a dover dichiarare che l’intingolo è proprio di proprietà di Caio e i moscardini di Sempronio?
Riprendo le fila del mio ragionamento. E le fila del naso (mio o del vino?), che poco fa mi avevano imposto quella sosta. Una pausa di riflessione capace di scandire le sensazioni forti che ho avvertito perché, prima che il bicchiere potesse giungere alle labbra, mi aveva travolto una nuvola.
Isolo l’appello olfattivo che promana dal calice. E’ un vortice solido. Mi avvolge la stessa sensazione che nel film “Profumo – Storia di un Assassino” riesce a rendere visiva la scia di odori lasciati dalle cose e dalle persone. E le narici che ossessivamente la inseguono quasi toccando, non solo con naso ma - tramite lui - con mano, essenze e fragranze.

Quando mi affaccio all’ufficio di Luca subito dopo una sessione di degustazione fin dalla porta vengo investita da un muro solido e invisibile che satura tutto lo spazio disponibile. Non è immateriale: è solo trasparente, ma rende l’aria più densa.

E’ l’odore – fortissimo – del vino.

Rifletto: si fa presto a dire odore di vino, come si fa presto a dire profumo.

Basta invece scomporre le parole come tesserine del domino e capirle per quel che significano o per le sensazioni che vogliono suggerire. Intanto, profumo ha per tutti una sfumatura di maggiore piacevolezza che non odore: a riprova, è difficile che un “profumo” puzzi, mentre un “odore” è liberissimo di farlo.
E poi si fa altrettanto presto a riferirsi al generico odore del vino oppure odore di vino.
In realtà è un castello di mattoncini Lego costruito su infinitesime sfumature: un tocco volatile di alcol che inebria e rende la testa leggera, quel cincinin di odor di uva pesta che ognuno di noi ha serbato nella memoria, quel ché “di foresta” che accompagna i rossi tosti; e poi i frutti rossi e viola, ma anche le banane, le pesche, e i fiori; e la cantina, la polvere, l’umido e il fresco di un’ombra che protegge la botte e la bottiglia, la rugiada di un muschio, la saetta del sole su un fico d’india.

Oddio: mi scappa un’altra immagine. Aiuto: non la trattengo.

Dalla memoria sguscia Arcimboldo, e posso indugiare su quel groviglio magistrale di cose, odori, colori, fiori e frutti e erbe e rami e terra e foglie che – insieme – dipingono un volto, una stagione, una sensazione, una suggestione.
Presa da tanta ricchezza, non posso non pensare che in realtà io non stia parlando del mio naso (corto o lungo, francese o greco che sia), ma proprio del naso del vino, di una sua proprietà fisica capace di dialogare con il mio recettore.

Sentire un sentore provoca la reazione nell’organo sensore. In altri termini: senza il suo sentore non saprei cosa fare del mio sensore2.

E’ sufficiente allora invertire il punto di vista e usare in maniera diversa i “possessi”: non basta che il mio naso capisca, deve parlare il suo aroma. Chiarito l’arcano finalmente assaporo quel sorso e, dietro e sotto al naso, vino e palato si incontrano. Ecco la bocca. Di nuovo: se anche è vero che è la mia bocca ad assaporare il vino nel calice, tanto più ricche saranno le mie sensazioni, quanto più ricca la sua bocca sarà e saprà parlarmi.

Un’altra pausa. Mi taccio.

Non importa il sapore preciso, il ricordo del profumo o l’immagine di sole che il naso aveva richiamato: mi colpisce il confronto, la distanza, la vicinanza, la sovrapposizione o la contraddizione che il sapore provoca rispetto all’aspettativa generata dal naso. E tutto sommato non m’importa sapere se e in quale ordine siano palato, lingua, denti, mucose oppure le papille a cogliere questo o quel tratto, questo o quel sapore.

Definitiva, si assenta la testa e la similitudine con Arcimboldo è ancora più vera e profonda. Nelle sue tele quei singoli e disparatissimi elementi – insieme – sono d’un tratto capaci di dipingere un sembiante, un viso. Allo stesso modo, l’insieme delle suggestioni che il vino mi comunica agli occhi (le lacrime, le gambe), al naso, alla bocca ne tratteggia il carattere, il contenuto. E così come il nostro corpo, unico e diverso da ogni altro, è la somma di tratti che sono comuni a ciascun essere umano - gambe, braccia, nasi, omeri, ginocchia e orecchie che siano – ma diversi nella rispettiva combinazione e nella assoluta originalità del risultato, anche nel vino la specificità di ogni particolare elemento dipinge in modo sublime il tratto del suo corpo che - unico e diverso da ogni altro – lo fa caro prezioso e unico al nostro.